Le Fate

Sono fate la cui storia è indissolubilmente legata alle tradizioni leggendarie e popolari che si originano dalla presenza dell’oracolo della Sibilla Appeninica. Di loro non si trovano tracce nei racconti e nei miti del contado ascolano, ma soltanto nelle narrazioni tramandate delle zone di montagna comprese tra il massiccio del Vettore e monte Sibilla. Esse appartenevano alla corte della Sibilla Appenninica e con questa dimoravano stabilmente all’interno della sua grotta.

Sui monti Sibillini ci sono molti luoghi segnati dal passaggio e dalla leggenda lasciata dalle fate, infatti, oltre alla grotta della Sibilla, ci sono: le “fonti delle fate”, i “sentieri delle fate” e la “strada delle fate”.

Queste affascinanti creature si muovevano tra il lago di Pilato, dove secondo la tradizione si recavano per il pediluvio, ed i paesi di Foce, Montemonaco, Montegallo, tra il Pian Grande, il Pian Piccolo ed il Pian Perduto di Castelluccio di Norcia e Pretare, dove ancora oggi una rappresentazione detta “ la discesa delle fate” custodisce e rievoca la memoria della presenza di queste creature.

Uscivano prevalentemente di notte e dovevano ritirarsi in montagna prima del sorgere delle luci dell’aurora per non essere escluse dall’appartenere al REGNO INCANTATO DELLA SIBILLA.

Secondo le tradizioni locali le fate sibille, ancelle della Sibilla, si recavano a valle per insegnare alle giovani la filatura la tessitura delle lane. Renzo Roiati individua in quest’incarico “le tria fata” .

Sono descritte come giovani donne di bell’aspetto, vestite con caste gonne da ci spuntavano zampe di capra e che il calpestio dei loro passi ricordava il rumore degli zoccoli degli animali sulle pietraie dei monti. Questa caratteristica del piede caprino è diffusa nei racconti di tutta la zona dei Sibillini, forse considerando che nell’immaginario popolare un piede siffatto avrebbe anche offerto una migliore presa sulle scoscese e ghiaiose pareti e che potesse meglio rappresentare una correlazione di queste figure a quella del diavolo, da considerare anche che le pelli di cara erano utilizzate per ripararsi dal freddo.

Secondo Mario Polia le fate appenniniche erano avvezze alle asperità della montagna e non solo da considerazioni come figure assimilabili alle creature leggendarie delle tradizioni celtiche, alle donne-elfo della tradizione germanica fate di luce solare, alle fate delle fiabe che ballano nelle radure dei boschi o alle figure minori delle ninfe greche.

Le fate sibilline amavano danzare nelle notti di plenilunio e, appropriandosi segretamente dei cavalli dei residenti, raggiungevano i paesi vicini la loro grotta per ballare con i giovani pastori. Sempre secondo questi ricordi si attribuisce alle fate l’aver introdotto il “saltarello”.

A Montefortino, in località “Rubbiano”, che nel dialetto locale si individua col nome “luFià”, da intendersi come “sub jà” cioè: sub jano, sotto il tempio del dio Giano, vicino alle Gole dell’Infernaccio, c’è un appezzamento di terreno che, in ricordo di questi balli, in dialetto “valli”, ancora oggi si chiama “Valleria”.

Secondo la leggenda, dopo essere uscite dalla loro grotta, le fate si fermavano presso una stalla per impadronirsi degli equini ed utilizzarli per rapidi spostamenti. Il proprietario dei cavalli insospettito dal ritrovare al mattino le bestie sudate ed affaticate, nonostante la fresca temperatura del ricovero, si appostò per capire cosa succedesse durante la sua assenza e scoprì che erano proprio le fate a servirsi dei suoi animali.

Anche in alcuni detti popolari sopravvive il ricordo di queste misteriose creature quando si dice: “Quanto sono belle queste fate, però jèscrocchieno li piedi come le capre”. L’antropologo religioso Polia riporta questa frase a conclusione di un racconto in cui descrive l’avvenenza di queste donne ed il desiderio degli uomini di riaccompagnarle presso la loro dimora.

Da questa abitudine delle fate di avere contatti con il mondo che le circondava nasce anche il tema del mito dell’amore che le legava agli uomini. Quest’ultimi, una volta entrati in contatto con loro, sarebbero stati sottratti al loro mondo, abbandonando così la sorte di semplici mortali, ed investiti di una sorta di immortalità virtuale che li avrebbe lasciati in vita fino alla fine del mondo, così come succedeva alle fate, ma costretti a vivere nel sotterraneo regno di Alcina.

Alcuni sostengono che le fate ci siano ancora adesso sui monti Sibillini e a riscontro di questa convinzione adducono fantasiose prove:

  • Le “treccioline” delle criniere delle cavalle. A volte gli animali condotti liberi al pascolo sui monti tornano con la criniera pettinata a treccioline ed i valligiani sostengono che le artefici sarebbero le fate;
  • Le luci random, fenomeno osservato in prevalenza nella zona di Santa Maria in Pontano, a Colle di Montegallo, quando, dopo il tramonto, sulle montagne si vedono delle luci che si muovono come se fossero delle persone, individuate come le fate che risalgono i pendii.

Le fate sibilline furono demonizzate per lunghi secoli dalle prediche di santi e di frati e costrette a rifugiarsi nelle viscere della montagna e costrette ad entrare a far parte del mondo invisibile. Sempre secondo la ricerca di Polia gli abitanti delle zone imputano la scomparsa delle fate ad una sorta di “scomunica” inflitta loro da Alcina che volle punirle per aver incautamente mostrato le loro parti caprine. Con la fine del mondo antico e dopo la morte di Pan, da creature del mito pagano appartennero al corteggio del diavolo.